L’immagine di Max Jacob che il secolo ci ha consegnato oscilla fra due miti, parimenti veridici e parimenti improbabili: quello dell’angelo funambolo, del «fantaisiste» stravagante e irresistibile, inventore di favole squinternate e di assurdi «calembours» e quello di una vicenda religiosa singolare fino all’incredibile, dell’ebreo convertito dalla visione di Cristo, che abbandona Parigi e l’Esprit Nouveau per toccare, nella solitudine di Saint-Benoit-sur-Loire, i vertici della pieta e del sacrificio.
E dentro l’alone del mito stenta a farsi strada, a concretizzarsi, quella che e invece una delle più ricche e strutturate voci poetiche
del Novecento – una voce che chi scrive non avrebbe alcuna esitazione a considerare, dopo quella di Guillaume Apollinaire, la più intensa della poesia francese moderna.
Fanno quasi torto a Max Jacob i funambolismi fonetici di Laboratoire central, le strampalate invenzioni di Cornet a des: e la critica si ferma sulla soglia formale, lo assimila ai «fantaisistes», a Cocteau, senza riuscire a compiere il passo avanti, a gettare l’occhio
nella densità abbacinante di alcuni suoi poemetti in prosa (soprat tutto nei testi postumi, nei Verniers poemes en vers et en prose, o nelle pagine sparse di Saint-Benoit-sur-Loire) – in cui l’invenzione
formale fantastica non e che la forma adeguata di un contenuto di
intensissima spiritualità. Testi in cui si mischiano, con lampi visionari (ma ora in compatte strutture narrative), l’anima e il mondo, Parigi e il paradiso, «esprit desir monstres et roses».
Tratto dalla Presentazione